giovedì 2 luglio 2009

In limine

Nerina Garofalo ( Maiko )
























La signorina Erenzi viene oggi con trentacinque minuti e sei secondi di ritardo. Si prende cura del lettino come è solita rifare ad inizio di seduta. Si stende e stringe, fra le dita, il bordo di un cuscino. Mi parla oggi di due sogni e di un fantasma.
























Lo sa dottore, cosa accade, quando sognamo di essere sepolti e infine vivi? Di cosa parla quel silenzio della pelle, priva persino di respiro, mentre la pietra posa il lato che le manca e si fa dura? Lo sa dottore cosa accade, se il verde delle muffe ci trasforma in piante e ci figura?
Accade che dall'occhio appena perso al mondo si apre un universo. Ed è per quel pertugio, per quella feritoia, che cadon le rovine, togliendo spazio al dentro e rivelando un varco fuori.
E da quel varco, da quel varco, di colpo ci accorgiamo che il colore è dentro e il bianco e nero è fuori. Che sfumano le scale e che si mischiano i colori dove la finitezza ci consuma e ci fa nuovi.
Fuori, dottore mio, ci sono solo due ritratti, il primo è un sogno, l'altro di poco meno di un cavillo in esistenza.
























Nel sogno io mi rivedo, da ragazza, interrogarmi sul genere del mondo, e scopro che non può che essere maschio, per la facilità d'ingresso nel tranello.




















In quel cavillo che è invece l'altro sguardo, c'è una ragazza nutrita dai capelli alla placenta del disastro.

venerdì 13 marzo 2009

Foto di gruppo

Filippo C. Battaglia
























Ecco sì, beh lì siamo sorridenti, era il compleanno di qualcuno, nemmeno ricordo, diciamo due compleanni... li avevano fatti insieme. Che poi non è passato tanto. È che la vita a volte... ma che cazzo, la vita è una merda senza tanti discorsi. Che poi tu credi di vedere Dio e invece sono i fari di un'auto che ti sta per investire il gatto o il cane o forse investe te. A me viene da vomitare. Comunque io sono quello dietro, in alto a destra i capelli ci sarebbero però c'è pure l'albero insomma me non mi si vede c'è davanti la testa di Giulio, però se guardi bene mi intravedi, comunque c'ero. Fatto sta che tutto si è sfaldato. Tutto si è sgretolato con noi e col paese, perché eravamo noi il paese e noi siamo caduti e quando siamo caduti noi non ci rendevamo conto di essere fratture, piccole fratture che però stavano tutte intorno, e che se crollano tutti allora, beh la vedete questa merda? Quello alto sulla destra è Luca, Luca una sera è andato in discoteca, in discoteca si è fatto un sacco di coca e poi ci ha bevuto, perché qualcuno tira per bere, come farsi una sega per scopare o qualcosa del genere... Allora, quella sera era implacabile, ci ha provato con tutte e si è scopato pure una tipa nel bagno, cioè così si racconta, poi completamente fatto ha attaccato briga con un gruppo di tizi di fuori, dei vaccari di periferia... e niente l'hanno buttato fuori se no questi lo rovinavano, ma a volte io vorrei che quei buttafuori del cazzo si fossero fatti gli affari loro perché poi Luca ha preso la macchina. Me mi ha svegliato mia madre la notte che diceva che c'era Claudio giù che era in lacrime e che diceva che Luca era morto. E quanti ce ne sono con una lamiera nel collo, con le bocche aperte e la pelle ustionata, sono tutti lì come una parata, una distesa di corpi e vite e cervelli, una generazione neanche fosse una guerra e chi non ha la lamiera nel collo e negli ingranaggi di un macchinario o è caduto da un'impalcatura oppure ha un ago nella vena o fa il politico o il banchiere... Le auto sono delle prigioni di lamiera, noi stiamo tutti scontando una qualche pena, a qualcuno però è stata data la pena di morte. E allora ti friggono. Al funerale di Luca forse eravamo ancora noi, ci siamo stretti, abbiamo pianto, ha pianto anche Giorgio che con Luca si litigava sempre perché era fascista, eravamo ancora noi e piangevamo e la sera ridevamo e piangevamo pure. Ridevamo e piangevamo insieme. Ma sotto l'apparenza le cose si stavano sfaldando. Qualcuno ha trovato la donna, qualcuno il lavoro, di tanto in tanto io vedo Paolo, disoccupato, Mirco l'hanno cassaintegrato, così dice Paolo, me l'ha detto... quand'è che lo visto? Una settimana fa mi pare. E io? Io non sono niente, sto ancora con mia madre e la mia faccia si sta sfacendo, secondo me questa non è neanche la mia faccia, era diversa, non ero bello, però ero qualcosa o forse non lo sono mai stato in ogni caso ora non sono più un cazzo. Non mi si vede neanche nella foto.

sabato 24 gennaio 2009

PRIMA DI PRIMA

Daniele Nadir














In principio fu la Vasca.

Poi venne la Paperella.

L’Acqua fu solo il terzo giorno, come un ripensamento, ed era gelida come il non-essere che piastrellava il buio degli Inizi.

Ella entrò, rabbrividì e creò il Rubinetto Orlato di Rosso - e vide che era cosa buona.

La Schiuma venne il quarto giorno e il quinto, finalmente, iniziò a scaldarsi sin dentro le Sue metaforiche ossa.

Il sesto giorno contemplò il Vapore e la sonnolenza La riportò dolcemente al non-essere.

Dopotutto ho creato abbastanza - pensò - quando Paperella iniziò a starnazzare.

Le nuotava intorno ai seni e alle ginocchia che spuntavano dalla schiuma come monti nella nebbia e per poco non la gettò nel buio… ma l’aveva fatta per questo. Giocare.

Una compagna.

Ella guardò il muso di plastica gialla e si chiese se ripiegare su una foca o un dugongo.

Un airone, forse?

Cos’altro?

Per pensare creò lo Shampoo e si massaggiò il cranio e i neri capelli bagnati.

Fu così che il settimo, mentre la vasca si popolava dei Primi Animali, i capelli si allungarono per uscire dall’acqua, curiosi, spinti dai sogni taciuti nella notte vuota, e insieme fluirono e s’intrecciarono sino a formare la trama e l’ordito del mondo.

Quando l’odore di Fiori e Terra giunse alla Vasca, gli animali si avventurarono oltre il bordo per andare a vedere, e anche a Lei, perfetta, che sempre aveva dormito, venne voglia di sporcarsi.

Fu allora che tolse il tappo.

dal Libro della Paperella I, 1-21

venerdì 28 novembre 2008

Grounded
Fuzzyka
























Ecco. Ormai è fatta. Sono dentro al suo sogno. Che poi non era affatto il mio.
Ma potevo forse deluderla?
Non potevo dirle che non mi importava, che per me si poteva continuare così anche all'infinito.
Lei voleva che qualcosa cambiasse. E così l'ho accontentata.
Ora crede di essere felice. Meglio così. Anche se non so esattamente quanto durerà.
Ma almeno per un po' si aggirerà contenta per la casa, con quel suo bel sorriso sexy e io potrò continuare a vivere indisturbato. Fino al prossimo capriccio.
Io non la capisco, ma in fondo non è necessario. La amo così com'è e a me basta.
Ho sempre paura che a un certo punto mi chieda di più, ma per ora sembra soddisfatta e cerco di non preoccuparmene troppo.
Temo che la perderei, se solo si fermasse ad osservarmi davvero.
Io lo so che accadrà prima o poi, ma fino a quel momento non voglio sciogliere l'incantesimo della sua illusione.
So che un giorno insospettita, dopo uno dei suoi lunghi monologhi, si volterà e mi chiederà se la sto ascoltando e a cosa penso. Ho idea che si arrabbierà molto quando le risponderò distrattamente:"Piante…".

lunedì 11 febbraio 2008

Insieme a te non ci sto più, guardo le nuvole cucù

Alessandro Monchiero























«In un'altra mezzanotte, d'altri tempi, stanco e affranto
meditando testi antichi d'una scienza ormai ignorata,
ciondolavo già dal sonno quando piano un colpettio
fu sentito alla mia porta, come un battito cortese».
E me la ciami cortesia, Edgar?
Bussar a notte fonda con beccuccio/martelletto?
Fattene una ragione, cucù! Lenore l’è morta, non v’è più.

Capita a tutti, non c’è gracchiare che tenga né consoli, né dittonghi celebrativi, men che mai suadenti enjambement. Oh, lallà! Nascondi/imbratta/storpia/affoga il sentimento dietro cantilenante nevermore, Pallade/appollaiato o meno, ma Lenny l’è passata, va in malora, puzza e inacidisce come carogna di vacca. Questo soltanto, e nulla più.

C’è – ed è vero – che quello era corvo di tenebra, e malmostoso, e timido, e di buia litania. E questo qui il Cazzuia ce lo ingentilisce al guardo, al cuore, ne fa un che di fru-fru. Ma abissi o non abissi – di lucifera coda non so dire né mi tange, mai più – resta il fatto che i vermi se sbafano a mucchiotti le poppe ormai flosce di Lenore.
C’hai un bel dire, Edgar bello, nevermore. Tu te resti solo in camera a intingere il pennino nel calamaio asiutto e son già paglia marcia i suoi cavej che furon d’or.

martedì 18 dicembre 2007

san sebastián y el paraíso.

Vittorio Mortarotti


Espagnoles, Franco ha muerto.

annuncio alla televisione spagnola il 20 novembre 1975

Domani starò meglio.

frase di María il giorno del suo quarantesimo compleanno



Entrò che con la mano destra si teneva ancora il pacco. María sentì l'odore acre dei suoi indumenti e, stretta la spugna, passò un colpo veloce sul bancone. Dal fondo del bar il figlio, seduto per terra, sentì la voce di quell'uomo venirgli contro.

"Una birra, María".

María aveva toccato quell'uomo. Era la prima volta che gli arrivava da quando non c'era più il marito. Ora quel gusto di sudore le faceva abbassare lo sguardo. La madre le diceva spesso, seduta in cucina a rammendare le calze: "Tu sei fortunata. Sei ancora giovane. Io penso che se fosse successo a me alla tua età..."

Di anni ne aveva quaranta, lei, passati la sera prima con quell'uomo nel ristorante in fondo alla via. E aveva anche provato a indossare quel vestito che le sapeva d'estate. Una volta sposata, il marito l'aveva portata a Pamplona a vedere la corsa dei tori. In estate si erano sposati. Due giorni a ridere in strada con il vino che ubriaca, a mangiare serviti nei ristoranti migliori e l'albergo che sapeva di nuovo.

A lei quel vestito ricordava l'estate perché solo a Pamplona aveva visto quel rosso negli occhi di rabbia del toro.

L'uomo ora la guardava di là dal fumo della sigaretta. Aveva ancora le mani nere dal lavoro e, con uno strappo, le mani cercarono di prenderle un fianco. María guardò nell'angolo dove il figlio faceva i suoi giochi. Poi prese gli occhiali e fece per leggere il giornale. "Sotto il franchismo il popolo ha dovuto subire le più tristi vergogne. Ma il sacrificio di Cristo deve mostrare a noi tutti il cammino che dalla sofferenza porta alla redenzione dal peccato originale" dichiarava per la prima volta il vescovo di San Sebastián appena cinque anni dopo la morte di Franco. Questo posto, pensava María, si sta portando via i miei anni. E mentre, pensava alle facce delle persone e alle parole.

Un tocco pesante alla vetrina del bar le fece spostare lo sguardo. Era il fratello di quell'uomo che gli faceva gesto d'uscire. Chiusa l'officina, i due passavano le sere all'osteria di Ramón con il vino forte e le storie degli uomini. Lui finì la birra con un sorso lungo e se ne andò quasi di corsa, senza una parola, ma con un sorriso che gli piegava la faccia come sapendo che domani avrebbe trovato María ancora lì, dietro quel bancone. Che tra qualche giorno, magari, l'avrebbe invitata ancora a mangiare fuori, la sera.

La vetrina scosse ancora per qualche istante. All’angolo, il cartello dei gelati era sbiancato al sole dell'estate. María pensò che era quasi tempo di toglierlo, che le giornate scorciavano e dal mare veniva un'aria fredda che chiudeva le imposte.

Sul pavimento era rimasto il chiaro delle scarpe da lavoro di quell'uomo. Allora incominciò a vedere il segno di tutte le persone entrate e uscite da quel bar. Orme di migliaia di uomini che si coprivano nel lavoro degli anni. Passi di terra, di segatura, di cenere, lavati via dalle sue mani. Un gusto di polvere le prese alla bocca. Cercò con le mani un boccone di frittata che stava sul piatto, lo mise in bocca e lo coprì con una sorsata d'acqua, cercando di buttare giù quel pugno che le fermava la gola. Poi, lasciando il bancone, andò a cercare lo straccio nello stanzino che dava sul cortile.

Mentre spostava il secchio, sentì la porta chiudersi e un rumore di tacchi attraversare la stanza fino ad uno dei tavoli vicino alla vetrata. María tornò alla sala, i suoi occhi si posarono lentamente su quelle scarpe, salirono sulla camicetta aperta al bottone alto e si fermarono in uno spazio del viso sottile tra la collana a perle e le labbra, entrambe segnate da un rosso calmo. Avvicinandosi, fu presa dal profumo che quella donna aveva dovuto spruzzarsi pochi minuti prima d'uscire. Non aveva mai visto la signora, prima. Doveva essere scesa dall'albergo che stava due vie più in là.

“Un bicchiere di vino, per favore.”

Girando gli occhi per tornare al bancone, María guardò per un attimo la spilla che le teneva i capelli raccolti dietro la nuca, appuntita come quella che usa per i tori ma con un fiore sopra.

La donna guardava fuori dalla vetrina mentre dalla via stretta scurivano le ultime ore del giorno e s'accendevano i lampioni. Alcuni ragazzi si nascosero dietro una delle colonne del portico con il fiato forte, rotto dal riso. Quando comparvero alcune ragazzine, saltarono fuori rubando il cappello ad una di loro e corsero via urlando. Alla donna brillarono gli occhi come accesi da una vecchia memoria. Poi si sporse dalla sedia fino quasi a sfiorare con la fronte la vetrina per vedere se i ragazzi si erano fermati. Ma la ragazza era partita lasciandoli con il loro trofeo, soli al fondo del marciapiede. Alla donna scappò un sorriso.

María ricordò che nel fine settimana una compagnia della capitale recitava nel teatro della città. L’osservava e cercava di immaginarla attrice, vestita con gli abiti di un tempo, guardare alla platea con quella stessa aria che aveva ora nel suo bar.

Accese le luci del palcoscenico, la donna voltò lo sguardo che andò ad incrociare quello di María. María ne sentì il peso e si girò.

Alle sue spalle, il calendario posava accanto alla foto del marito e alla cornice usata di San Sebastiano, che stava lì dal giorno in cui, insieme, avevano aperto quel bar. Prese la penna nera che stava nel cassetto dei soldi e segnò alla fine del mese il giorno delle consegne. Poi si fermò sulla manica della camicia a righe verdi, slacciò il bottone e la rimboccò per nascondere la macchia che si era fatta con il vino. Con il rovescio della mano si asciugò la fronte e spinse una ciocca di capelli dietro l'orecchio. Si rigirò e, senza più guardare, si rimise a leggere il giornale.

La donna adesso fissava l'orologio sul muro in fondo alla sala. Era l'ora del suo appuntamento. Si alzò muovendosi verso il bancone e pagò. Poi, quasi non pensandoci, guardando ancora una volta al muro con la pendola che ticchettava, disse "Lei è fortunata. I figli sono l'unica cosa che resta, dopo...." prese il resto e, senza chiudere quel dopo, salutò con un magro sorriso che le segnò una ruga accanto all'occhio sinistro.

Mentre andava, il rumore dei tacchi coprì quello più largo dell'orologio.

Erano ormai le sette, María prese il figlio e uscì dal suo bar. Con uno strappo abbassò la serranda. Un lento brusio accompagnò l'insegna rossa che poco a poco spegneva. Il Paraíso era chiuso. Pensando all'inverno che si avvicinava, María sentì una fitta al petto. Come di un freccia tra due ossa del costato.

sabato 1 dicembre 2007

io

Andrea Gerbaudo

















Non è possibile. Forse inizio a essere un po’ stanco. O a soffrire un po’ di solitudine. Monomania. Megalomania. Insomma, una cosa del genere.

Però anche a guardare bene sembra proprio così. Mica mi sbaglio. O sì?

Ma sì, mi sembra evidente. Quello sono io. Io in ogni cosa. La barba, i capelli, anche il gesto. Come se mi avessero scattato una foto.

Dio santo. Qui mentre aspetto il dentista, qui su una rivista aperta per caso, su questa pagina che pubblicizza una macchina, un viaggio. Un vino, pubblicizza. “Il rosso con l’allegria addosso” e lì in mezzo io. Che rido. E bevo. Pazzesco. Resto col giornale aperto in mano. Intorno tutti zitti, sonnecchiano, nessuno s’accorge. Non si comunica mai, in queste situazioni. Peccato. Alla signora qui di fronte chiederei un parere. Ma lei è impegnata col telefono.

Poi la visita, quindi fuori mi riprende il pensiero. Vado in edicola. Chiedo il numero tale del tal settimanale. Non ce l’hanno. È vecchio, mi dice il signore. Ho quello nuovo. No grazie.

Che fare? Esito un attimo, ma in fondo ho già deciso. Torno indietro, suono, faccio un sorriso di scusa, fingo di aver scordato la sciarpa, mi aggiro un po’, dico chissà, fa lo stesso, tutta una scena, poi mentre mi giro per uscire infilo in tasca il giornale. È fatta!

A casa riconsidero, sto lì tutta la sera. Suggestione? Mi metto nella posa davanti allo specchio, la pagina aperta per terra. Io. Io sputato. Com’è possibile? Non ci dormo la notte. Il mattino dopo, una pietra nel cervello. Prendo il caffè con il disegno ancora di fronte. Così non si va avanti, decido. Devo sapere. Capire chi l’ha fatto.che senso ha questa storia. Perché un senso deve avercelo, questa storia.

Iniziano le telefonate. Alla redazione. Che mi passa il grafico. Che mi passa l’impaginatore. Mi riferisco a quel numero. Sì. A quella pagina. Cade la comunicazione. Richiamo. Tornato all’impaginatore, capita la faccenda, mi fa: ma è una pubblicità? Chiami l’azienda allora.

Già. Chiamo l’azienda. Che mi passa il settore commerciale. Che mi passa l’ufficio personale. Che mi passa il creative director. Che, incredibilmente, sa: il nome dell’artista che ha illustrato la pubblicità è M.C.

M.C..Non lo conosco. Cerco su internet. Il sito, poche cose, nessuna foto. Ma c’è l’indirizzo dello studio. Abita in una città non lontana. Bene. Nessuna esitazione, a questo punto. Il giorno dopo salgo sul treno, la faccia decisa e in tasca il mio bel ritaglio. Esigo spiegazioni, caro signore. Quando arrivo, vado a piedi fino in centro. Sono galvanizzato, mi sento vicino alla fine di questa storia. Perché un senso deve avercelo, questa storia.

Trovo lo studio. Mi apposto in un bar di fronte, pochi clienti, aria noiosa da capoluogo di provincia. Aspetto paziente. È quasi l’ora di pranzo, quando qualcosa accade. Esco in un balzo e mi dirigo deciso verso l’uomo che, voltato, sta chiudendo a chiave l’ingresso dello studio.

Mi scusi, azzardo.

Si volta.

Ha la barba nera, i capelli corti come me, gli stessi occhi. E li spalanca guardandomi. Le gambe mi cedono, mi appoggio al muro. E lui, senza riprendersi dalla sorpresa, punta il dito e dice:

ma allora sei tu!

giovedì 25 ottobre 2007

QUARTIERI D’AUTUNNO

Mario Pasquetti


Passo tra una goccia e l’altra in questa giornata piovosa di fine settembre.

La tua lontananza è il mio labirinto d’autunno. La tua distanza è il distacco di foglie morte e avvizzite che preparano il letto alla mia disperazione…Ma tutto questo non conta. Tutto questo non importa…

La mia lontananza è la tua scelta. La scelta di mantenerti distante da me.

La tua scelta è il tuo presagio. E’ la presunzione dell’aver già capito a priori chi sono, di considerarmi come un fottuto zodiaco che mi è stato involontariamente assegnato alla nascita e che ora mi ha bollato e trasformato, per tua convinzione, in un destino sgarbato e impertinente.

La mia lontananza è il frutto acerbo della tua sacrosanta volontà.


Passo tra una goccia e l’altra e provo a misurare lo spazio che le separa, ma è come se tra loro ci fosse una distanza impercorribile, incolmabile, incalcolabile…

La nostra distanza si è fatta disabitata, vuota. Vuota come questi quartieri. Vuota come il vuoto che separa queste gocce di pioggia…Passo tra una goccia e l’altra come se niente potesse più toccarmi, neanche più quest’acqua e mi chiedo se un giorno o l’altro capirai…

La distanza che in questi giorni ci separa è fatta di gocce, è fatta di centimetri, ma è come se fossimo lontani mille miglia. E’ come se noi nomadi vivessimo rinchiusi, reclusi e ammanettati in camere stagne separate. Come se fossimo stati assassinati e annegati in muri d’acqua e cemento.

Ogni mia decisione è una fatica e tu lo sai…

Ieri mi chiedevi di avvicinarmi a te, di volerti bene, di abbandonarmi a te e di amarti seguendo un istinto consapevole, un istinto positivo e costruttivo.

Dicevi che il tempo avrebbe fatto la sua parte, che per te sarebbe stato un piacere e un onore starmi accanto ed essermi d’aiuto; perché l’aiuto che ricevevi in cambio da me era ben più grande di quello che saresti stata in grado di regalarmi ed era ben più forte di quello che potevo immaginare.

Ogni mia decisione è una ferita e tu lo sai…

Oggi che tutto questo è successo mi chiedi il contrario di quello che hai desiderato con ardore.

L’aver scoperto di essere amata da uno come me ti spaventa a tal punto da farti allontanare.

Oggi mi chiedi di far tornare tutto come prima. Come prima di cosa? Prima del tuo cercarmi con insistenza, prima dei tuoi inviti, prima delle tue parole…Prima di cosa?

Adesso mi chiedi di far tornare tutto come prima, senza abbandonarci del tutto, ma io ti rispondo che non sono più capace, perché sono ormai inguaribilmente vecchio e sono ormai inguaribilmente stanco per tutti questi esercizi, per tutta questa ginnastica cardiaca.

Mi sento un po’ come questo cielo disfatto, come queste nuvole che danno da bere a una terra assetata, senza che nessuno abbia chiesto a loro nulla.

E’ così. Sarà solo così. Non potrà essere altro che così. Solo con questa mia imposizione di lontananza riuscirò a rispettare la tua volontà. La volontà dei tuoi pensieri che a mala pena intravedo, ma non conosco. La volontà della tua solitudine.

Tutto il resto non conta. Tutto il resto non importa…

Forse un giorno o l’altro lo capirai. Forse un giorno o l’altro ti pentirai o, più semplicemente, ti accorgerai che gli affetti, quelli veri e sinceri, non hanno bisogno dell’inganno delle parole. Non necessitano di nessun verbo o pensiero assurdo.

Passo tra una goccia e l’altra e forse mi illudo che un giorno o l’altro tu riesca a capire il bene che ti ho voluto, il bene che ho ricevuto da te e il bene che saresti ancora capace di regalarmi.

Passo tra una goccia e l’altra senza essere nemmeno sfiorato e aspetto il momento giusto, il momento esatto del ritiro, perché penso che, in fondo, di fronte alle volontà altrui bisognerebbe riuscire a conservare la discrezione della resa, la dignità definitiva del ritiro. E’ forse tra le cose più difficili da accettare, ma penso che nel rispetto dignitoso delle scelte altrui stia racchiusa la decenza di noi stessi.

Mentre resti immersa nel lago traboccante e immobile dei tuoi pensieri e dei tuoi dubbi eterni, mentre aspetti che qualcuno, a cui non importa niente del rispetto, ti scelga e approfitti un’altra volta di te, impadronendosi del tuo corpo e del tuo silenzioso assenso, dopo aver rifiutato per un’altra volta di credere ad un amore sincero, per aver avuto troppa paura di perderlo ancor prima di iniziarlo, voglio sperare che cambi qualcosa. Ma non lo spero per me. Lo spero per te, per la tua giovane età, per il tuo diritto ad amare e ad essere amata.

Sperare è l’unica e ultima cosa che mi resta.

Nella calma apparente di questa grigia e piovosa mattina di fine settembre, senza alcun bisogno di comprensione, senza alcun bisogno di consolazione, come se non volessi e non intendessi neppure alterare il rumore della pioggia, mentre mi chiedo se non sia più facile imparare a disobbedire ai sentimenti, passo tra una lacrima e l’altra, ascoltando il rumore dei centimetri, in questo silenzio assordante di parole dette e poi taciute per sempre.

mercoledì 3 ottobre 2007

NON ODI CHE T’AMO?

Andrea Monasterolo

Forse mi odi…
…ma non mi odi quando parlo perché al telefono non mi rispondi.
È quasi certo che mi odi, se così ti comporti con me!
Che però ci resto male se non dici chiaramente: “Io odio te!”.
Anche perché ad altro non riesco a pensare.
Magari potessi lasciarti in un angolo della mia testa
e riempire con altro o con altre lo spazio che resta…
Ti porgo il fianco, ti dico: “Trafiggilo!”.
È meglio che stare sospeso in questo limbo ridicolo,
dove non so se chiamarti sia giusto o molesto.
Faccio sogni in cui ti amo e certo anche tu non mi odi,
se mi fai quello che fai e non ti neghi.
Però sono sogni soltanto
e non hanno attinenza
con la mia banale richiesta di ascolto.
Mi basterebbe un : “Pronto?... Ah si…Ciao.”
Anche senza entusiasmo.
Sempre meglio degli squilli che cadono nel vuoto.
Sempre meglio che messaggi privi di risposta.
Ti scongiuro!(e non è una cosa che faccio sovente…)
Alza la cornetta e dimmi: “Basta!... io con te non ci voglio parlare!”
A te non costa niente e io sarò salvato dalla sindrome del tunnel carpale
a forza di tentare il tuo numero sui tasti del cellulare…
Dimmi piuttosto: ”Con te non voglio più avere a che fare!”,
ma dammi qualcosa di meglio di questo silenzio,
che ogni volta che provo dopo mi sento più stanco…
Quindi sposta la cornetta di lato, così almeno trovo occupato
e penso che hai un altro, metto l’anima in pace, mi do una calmata.
Forse mi odi perché ti sembro rassegnato,
ma mi pare evidente il contrario, dato che continuo a cercarti via cavo!
Mi dicevi : “Mio caro” una volta, quando ancora rispondevi al telefono,
ora forse dici: “Col cazzo!” e lo guardi che squilla senza muovere le braccia.
Ci stavamo delle ore a parlare, a dire di fare, a farci anche l’amore,
ora perché non mi vuoi neppure ascoltare?
Forse tu mi odi anche se non mi odi quando parlo,
ma anche se mi odi non ti può far male se ti chiamo.
Alza la cornetta! Non ti farà danno sentire la mia voce che ti dice:
“CARA IO TI AMO! Mi concedi la tua mano?”

lunedì 24 settembre 2007

Je t' aime + l’albero a cui tendevi la pargoletta mano…

Fabio Donalisio





















je t’aime

una questione tra me e te
farti passare sopra o sotto
a piccoli pezzetti
o tutta in un botto

a rischio di salute
mi spremo e mi concentro
ma il quid non si discute
entro stasera ti voglio dentro


(moi non plus)

la fai facile, bambina
travestendola da amore
mero affaire di pertugi
senza ascoltare il cuore

girala come vuoi
la cosiddetta frittata
tu prendi il godimento
e io l’inculata

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l’albero a cui tendevi la pargoletta mano…


l’autunno implacabile ti mette in mostra
ti deride, gratta sotto la crosta
tutte le malefatte, tante
nella tazza ammaccata e rossa
dove bevevi il caffelatte

ora bevi di più, bevi altro
la terra è smossa
il conto sul tavolo
la mano tesa al giro di giostra
un ricordo eccessivamente benevolo

tra un po’ diranno “era un buon diavolo”
con voce casta e un po’ commossa






post scriptum

qualcosa come anni
per predisporre la fossa

giovedì 6 settembre 2007

Delirium Daniel

Emilio Sola

– Non c’è problema, signore – mi disse e mi sorrise. Mi chiamò signore e mi sorrise, quel deficiente, non mi devono chiamare signore né sorridermi, mi fa incazzare quando mi chiamano signore e mi sorridono, mi fanno venire in mente mio nonno, magro magro dentro a un vestito che si reggeva da solo, in piedi accanto al divano su cui era seduta mia nonna, che alza il dito in aria e mi dice “Ricordati che diventerai un signore, un giorno”, e mi sorride, mi fanno venire in mente quel conta palle di mio nonno, che ora mi ritrovo uno straccione con un impermeabile del sessantacinque addosso pure d’estate, un cappello mezzo mangiato dai topi, una macchina da scrivere coi tasti scombinati e la fame che mi fa puzzare, “Ricordati che un giorno diventerai un signore”, mi diceva, e poi quel sorriso, fortuna per lui che se lo è portato un cancro altrimenti l’avrei strozzato con queste mani, a lui, a mia nonna e chissà chi altro ancora… e che cazzo! Comunque, era una stanza, solo una stanza, senza nulla dentro, pareti e basta. – Non c’è problema, signore – mi disse e prese a premere pulsanti e a tirare leve, che erano lì, nelle pareti, e chi le aveva viste! Premi e tira e schiaccia e sfrega e dalle pareti uscì di tutto: letto, fornelli, cesso, lavandino, poltrona, tavolino, c’erano pure dei quadri, e che cazzo, anche i quadri!! Poi tira una di quelle dannate leve e una parete si gira e appiccicata alla parete chi ti rivedo?… no, non ci credo, non è vero, devo farla finita con ‘sta robaccia, farla finita prima o poi… e chi ti rivedo, porcaputtana, ti rivedo mia nonna… no no no, non mi sono sognato un bel niente, era lei eccome, mi gioco un coglione e mezzo che era proprio lei… no no no no… e quella roba non l’avevo mica ancora toccata, no no no, neanche un sorso, lo giuro davanti alla Corte Suprema del New Jersey, signore, con tanto di Bibbia sotto la mano, se vuole… e c’era mia nonna, tonda, con i capelli raccolti sulla nuca, bianchi… bianchi e grigi, coi ferri per l’uncinetto e una maglia lunga lunga lunga che le si srotolava ai piedi, gli occhi nascosti dietro due lenti spesse spesse, gli occhiali con una sola stecca, mezzi storti sul naso, un neo peloso al lato del mento, due baffetti sbiaditi ai lati delle labbra, le pantofole e i gambalini con l’elastico stretto ai polpacci, e mi guarda da sopra gli occhiali, mentre ripete lo stesso movimento all’uncinetto, e mi dice “E ricordati che devi…”, e manco finisce di dire quel che deve dire che quello… Sedatavo, Sedano, Setunonfossiquiiiii tira un’altra leva, o preme un interruttore e affianco a mia nonna compare… sì, proprio lui siori e sioreeee my granfather venghino venghino… pareva ‘na mummia… venghino siori il mummione siore… un manichino, tale e quale a quando lo vidi per l’ultima volta, nel 1947, sempre con quel dito per aria, e venghino, vidino, ridino… quel fascistone che aveva appena finito di perdere una guerra… “Arricoddati, nicarieddu, ca nu juornu addiventerai…”, s’era messo a parlare il siciliano, s’era messo… e gli mancava solo il barbone e lo giesucristu appiso allu cuollu e pareva Provenzano… “addiventerai nu signuruzzu”… e poi rotola fuori un televisore che manda delle immagini del tipo uno che tiene un fucile contro la spalla e mira a un altro che se ne sta bendato contro un muro di cinta di una villa nuova nuova, le mani legate dietro la schiena e il mento alto, e quello spara, il rinculo, il fumo dalla canna del fucile, e l’altro s’accascia, prima sulle ginocchia, poi su un fianco, poi quando è faccia a terra spuntano due paia di cosce lunghe lunghe sotto due tette da sballo, che a loro volta stanno sotto un sorriso tutto bianco, che a sua volta sta sotto due occhi grandi e azzurri, che a loro volta stanno sotto una chioma riccia riccia e bionda, che punta il dito contro il muro alle spalle dello sparato e dice: “Muratura Farinetti, è tutta un’altra morte!!”, poi si china, toglie la benda al cadavere, e chi è?… e sì, e sì, è mio nonno, e quello che ha sparato chi è?… è mia nonna e… Stemano, Festano, quando mi giro è il mio gatto morto vent’anni fa, e c’è mia madre che urla “Mettiti le pattine che ti possino…”… e mio padre che bestemmia, storge la testa e dice, “E fatemi seguire la partita della Juventus, li mortacci vostra… zitti!”… e me ne sto seduto con la schiena contro a una parete con quest’impermebile che non mi tolgo di dosso dal sessantacinque, un cappello mezzo mangiato dai topi, una macchina da scrivere con i tasti scombinati, un fiume di lettere e parole che mi si aggrovigliano nella testa e porcaputtana prima o poi dovrò pure farla finita con ‘sto Jack Daniel.

lunedì 30 luglio 2007

Quegli occhi di fuoco

Andrea Galla

Il cielo è limpido, come quella notte di trent’anni fa, in un mondo che era un altro, in una strada fatta di boschi, ghiaia e ricordi.
Lei, ora, è nascosta dietro ad un castagno. Lo so, l’ho vista quando sono arrivato, con la sua aureola fatta in casa, il viso lungo, le orbite vuote, tutto come un tempo. Nella mano destra, i suoi occhi, sferici e perfetti. Mi sta osservando, ma la sua mano non si allunga più a donarmi il suo macabro trofeo. I suoi occhi, i miei occhi ciechi, per paura.
I miei occhi che hanno dimenticato, perché, a dodici anni, il mondo deve avere le sue regole, e se queste vanno in frantumi, cosa rimane se non la follia?

Camminavo sotto un cielo limpido, armato di un paio di sandali leggeri, una canottiera bianca, e sulle labbra il calore tiepido del mio primo bacio. A tratti correvo, felice, tra le fonde basse del bosco, la mia scorciatoia per arrivare a casa. Il mio sentiero segreto.
Fu in quel momento che li sentii: grida di pietà, tra grugniti di piacere e divertimento.
Rallentai, incuriosito, avvicinandomi a quelle voci,
fino ad una piccola radura.
C’era una donna che piangeva disperata. I suoi vestiti erano strappati, e il suo corpo nudo brillava alle stelle, bellissimo. Due uomini, con i pantaloni calati, già paghi, incitavano il terzo che, con veemenza, picchiava e abusava di lei, che si dibatteva, urlando e graffiando.
Poi, l’uomo, mise fine a quel gioco macabro, e con una pietra la colpì, riempiendo la notte di un silenzio freddo.
Io guardavo inorridito, con il cuore che galoppava forte.
L’uomo, piegato ancora sulla donna, si voltò di colpo, quasi avesse avvertito, annusandola, la mia presenza.
I suoi occhi rossi brillavano nella notte, il viso distorto dalla ferocia, quasi un demone, ancora assetato di violenza.
Mi vide, e il terreno sotto ai miei piedi tremò. Il suo sguardo di fuoco mi inchiodò al suolo, senza lasciarmi scampo: avrei voluto gridare o scappare, ma non ci riuscivo. Ora tocca a me, mi ripetevo, e lui lì, ancora fermo, con lo sguardo avido di sangue.
La voce di un suo compagno, - Questa è andata, amico -, spezzò l’incantesimo, e fui libero. Le gambe che mi tremavano, fuggii, senza guardarmi alle spalle. Veloce, perché la morte non mi raggiungesse.
Arrivai a casa, e mi rifugiai nella mia stanza, con mio fratello più piccolo che russava tranquillo, e mia madre già a letto.
Non dormii per tre notti, non dissi nulla a nessuno, la paura mi aveva paralizzato il cuore.
Ma ancora non era finita.
La domenica, pronto per la Messa, sentii le mani forti di mio padre posarsi sulle mie spalle. Eravamo soli, gli altri erano già in strada. Mi costrinse a voltarmi, mi fissò con quegli occhi che non erano suoi, ma di quel demone, quella bestia, che viveva nel bosco, e non parlavano di amore, no, erano solo minaccia, e dolore.
Fu in quel momento che la vidi, per la prima volta. Dietro mio padre, con il suo viso largo, capelli lunghi, e una piccola areola gialla.
Mi guardava con le sue orbite vuote, spaventosa, allungando la mano a porgermi qualcosa: i suoi occhi, i miei occhi, ciechi e pavidi, sul palmo della sua mano. Era la donna della sera prima, ma non era lei. Quello fu tutto, perché ciò che venne dopo fu solo allucinazione, dolore, e pazzia.
Nei sei mesi seguenti, lei mi fu sempre accanto, ogni cosa facessi, era lì, l’aureola come un neon difettoso, un incubo assiduo e spaventoso. Con il suo invito continuo, come a dire “Ecco i miei occhi, ecco i tuoi occhi. Contengono il ricordo, la verità.”
Ma io mi coprivo il viso con le mani, urlavo di dolore, senza ascoltarla.
Giorno dopo giorno, tra psicofarmaci e terapie, riuscii a dimenticare, pezzo dopo pezzo, quella notte, mio padre e, alla fine di un settembre piovoso, lei scomparve. Portando con sé il ricordo di quella notte.

Scomparve, fino a ieri.
Ero al telefono e la vidi, sull’uscio di casa, che mi fissava con le orbite vuote, il braccio teso verso di me, gli occhi sempre stretti nella mano destra, azzurri e grigi, come i miei. La riconobbi all’istante, e tutto quello che avevo dimenticato, rimosso per sopravvivere, esplose in centinai di frammenti, stordendomi.
Il bosco, le grida, quegli occhi di fuoco, gli occhi di mio padre.
La voce di un medico, dalla cornetta del telefono, chiedeva se mi sentissi bene. Mi stava dicendo che mio padre era appena morto, non ce l’aveva fatta.
Io nemmeno l’ascoltavo, perché finalmente ricordavo.

Sono tornato in quei boschi, ora un piccolo parco abbandonato, alla periferia della città.
Mio padre è morto, lui che l’ha uccisa, lui che teneva alto il velo scuro della paura, impedendomi di ricordare.
La notte è la stessa, il cielo limpido, e nel buio scavo in quella tomba improvvisata, perché questa storia possa avere fine. Per lei, che grida ancora da sotto il terreno morbido, per me, perché possa continuare a vivere, nonostante il rimorso.
Scavo, e ricordo, e l’odio verso mio padre, le sue bugie, le sue minacce, quei due occhi di fuoco nella notte, si condensano, in un magone di cristallo tagliente.
La mia pala tocca qualcosa, è lei. Lo so.
Mi volto, per cercarla dietro al castagno, ma lei non c’è, è finalmente scomparsa. Per sempre.
Scavo ancora, poi chiamo la Polizia.
Cosa racconterò, mi chiedo per un attimo, con il cuore finalmente libero, nonostante tutto.
E, come una carezza, affiora sulle mie labbra il ricordo tiepido di un bacio caldo: sono le labbra di Laura, nel nostro primo bacio, quella notte di trent’anni fa.

domenica 15 luglio 2007

Andersen reloaded

Laura Albano



















Sdraiata su un fianco la figlia del mare si sente addosso tutte le migliaia di leghe che ha percorso. La stanchezza le ha invaso il corpo come melassa, ma è contenta di essere tornata a casa.
Si ricorda tutto. La prima volta che aveva visto le luci, i colori, i suoni del mondo terreno e non riusciva più a toglierseli dalla testa. Il principe che aveva salvato dal naufragio. Il desiderio per un’anima immortale come quella degli umani. Si era stancata di ricevere in dono collane di anemoni, voleva qualcosa di diverso: un’anima immortale per esempio, così per cambiare. Si ricorda l’antro della strega dove in cambio della sua bellissima voce prima di partire si è fatta tagliare la coda a metà per avere due gambe di donna. Il dolore e lo svenimento. Al risveglio poi lo stupore, il contatto dei piedi col suolo, altre sensazioni nuove esplorando nuove parti di sé, bello, sarà un pezzetto d’anima anche questo aveva pensato.
Ma la strega era stata chiara, per conquistare un’anima immortale il principe doveva fare di lei la sua sposa, altrimenti lei rischiava di rimanere né carne né pesce e di doversi dissolvere in schiuma. E quello stupido bamboccio cosa aveva combinato? Non aveva riconosciuto colei che l’aveva salvato dalle acque, e l’aveva accolta a corte sì, ma come la sua sorellina e confidente: anche perché lei era muta, e lui poteva raccontarle tutti i suoi guai – non avrebbe mai pensato che un principe potesse averne tanti, ma allora a che serve avere un’anima immortale, si era chiesta? A portarsi dietro tutti i propri guai per l’eternità?
Già questo l’aveva resa dubbiosa.
La conferma che l’anima non sarebbe stata un buon affare l’aveva avuta quando il principe aveva sposato la figlia del re vicino. Le era bastato assistere al primo giorno di vita coniugale per capire che l’anima tra uomo e donna era solo fonte di complicazioni.
Dunque aveva scampato un pericolo. Ora per tornare a casa e non dissolversi in spuma di mare non aveva altra scelta che uccidere il principe con il coltello che le avevano dato le sue sorelle. Le istruzioni erano precise. Una cosa però non aveva previsto: che il principe svegliandosi di soprassalto nel cuore della notte e vedendosela lì accanto al letto, nuda salvo il coltello, fosse preso dal desiderio e la trascinasse nelle reali cucine per unirsi a lei sul tavolo dove i cuochi erano soliti spennare i polli. Senza prevedere le conseguenze.
Sente battere alla vetrata, apre gli occhi e guarda fuori. E’ lui che le fa un cenno con aria un po’ spersa, non si è ancora ambientato. Nel regno del mare è stato accolto con curiosità e un po’ di naturale diffidenza, muove la coda ancora un po’ goffamente ma si abituerà. Lei si alza per preparargli qualcosa da bere e gli sorride dolcemente di qua dal vetro. Dovrà dimenticarsi certi giochi terrestri ma lei gliene insegnerà altri, e anche senza un’anima immortale i loro trecento anni di vita li trascorreranno nel migliore dei modi.

giovedì 28 giugno 2007

A Oriente

Daniele Nadir
























Ci sono molti fatti assodati che indubitabilmente sono inesatti, distorti o mendaci ed è per questo che le chiamano Storie.
Il serpente (primo, fra tutti) è stato eloquente.
Eva e Adamo lasciarono il Paradiso perché qualcuno fece la spia e il leone sbranò Daniele.
La colomba non è mai tornata sull’Arca.
Il Nuovo Mondo, dopo il Diluvio, sorse dalle feci che il corvo lasciò in mare.
L’Arca affondò e su Giona non ho udito niente di sensato.
Ma siamo tenaci.
Possiamo tutto - siamo noi a raccontare le Storie - e siamo ovunque.
Siamo i Primi, i Prescelti. I Predatori, senza dubbio.
Solo il Paradiso ci è precluso.
Pensateci.
Gesù e San Francesco vengono spesso confusi e tutt’oggi, a oriente, una capra vigila le porte dell’Eden.

mercoledì 27 giugno 2007

Tanto vale buttarlo via

Luigi Fenoglio

















L’anno in cui mia sorella si sposò fu anche l’anno in cui mio padre pescò una trota da cinque chili. Se ne parlò in tutta la vallata perché una trota del genere non s’era mai vista da quelle parti e per di più l’aveva presa uno che neppure era pescatore. E lui girava per il paese con un cappello a tesa larga e la schiena dritta, raggiante e sicuro di sé offriva da bere a chiunque avesse voglia di ascoltare quello che aveva da raccontare. Aveva un sorriso così grande che sembrava gli si fosse accorciata la pelle. E allora passava le sere all’osteria e a volte saliva in piedi su un tavolaccio e si metteva a cantare, raccontava la sua storia e si gloriava di averla messa nel culo a tutti i pescatori invidiosi che ci avevano provato per anni senza riuscire neppure a vederla una trota così. Credo lo sapesse che in fondo non gliene importava niente a nessuno, ma con il bicchiere in mano non avevano orecchie che per lui.

Andò avanti per un po’ con quell’andazzo da spaccone e quel sorriso da primo ministro, poi una sera mia sorella annunciò di essere incinta e la pelle tornò della lunghezza di sempre. Forse qualcosa di più. La trota venne dimenticata e seguì un periodo di fermento e preparativi frenetici per il matrimonio imminente. La sera in cui conobbe i genitori dello sposo mio padre si rifiutò di parlare, disse soltanto che avrebbe invitato quante persone voleva e che al vino ci avrebbe pensato lui. C’era poco tempo, lo sapevamo tutti quanti, ma lui non volle rinunciare a fare le cose in grande e invitò più di centocinquanta persone.

Io i matrimoni non li ho mai sopportati. Le camice pulite e i colli di gesso, le cravatte coi pupazzetti, i capelli ordinati e la riga da una parte, le centotrentadue portate del pranzo e l’ipocrisia strisciante che s’incastra in tutte le mani che si stringono, nei sorrisi che si sprecano e nell’umanissima volontà di tutti quanti di trovarsi in realtà da un’altra parte. Ma non avevo fatto i conti con mio papà. Accompagnò mia sorella all’altare tenendola sottobraccio, impettito e fiero anche se sapeva benissimo che lei era a disagio. Si era raccomandata che non le facesse fare brutta figura e lui si comportò benissimo, non si mise a ridere durante la funzione e si sforzò di non insultare lo sposo. A metà della cena, però, si slacciò la cravatta e salì su un tavolo.

Era sudato, si era aperto la camicia e ansimava. Invitò gli altri a cantare ma nessuno volle seguirlo. Così prese una bottiglia di vino in mano e la mostrò a tutti gli invitati che lo guardavano senza sapere bene se farlo scendere o cosa. Disse che era vino buono e che se il vino non serviva a far cantare allora tanto valeva buttarlo via. Fu a quel punto che guardò mia sorella e si mise a piangere. Balbettò qualcosa che nessuno riuscì a capire e bevve un lungo sorso dalla bottiglia. E allora cominciò a cantare da solo, a squarciagola, con le braccia spalancate e le vene che gli si gonfiavano sul collo mentre gli invitati si scambiavano sguardi disorientati e mia sorella si teneva la faccia fra le mani. Ma prima uno, poi due, poi tre, poi un numero sempre maggiore di invitati si alzò in piedi e lo seguì nel canto. E a mio padre non importava se lo stessero facendo per fargli un piacere, se fosse pietà o semplicemente avevano voglia di farlo. Fu una gran festa, la gente prese a ballare e mio padre cantò fino allo sfinimento. Poi però scese dal tavolo e se ne andò esausto da qualche parte all’aria aperta.

Io scappai nel cortile e lo seguii. Non sapevo bene cosa gli avrei detto e neppure cosa dire in realtà, ma non volevo che stesse da solo. Lo trovai un po’ più in là, sdraiato a pancia in su sul prato mentre allargava gambe e braccia come mi aveva insegnato a fare da bambino nella neve fresca. Sto nuotando come un pesce – diceva – ma in realtà stava solo cercando di diventare un angelo.



lunedì 18 giugno 2007

ILLUSTRI RACCONTI





















Quello che solitamente avviene: leggo il racconto e dalle suggestioni che ne ricevo creo l'illustrazione.
Quello che avviene qui: "Illustri Racconti" vuol essere il rovesciamento del percorso abituale, gli autori coinvolti sceglieranno di volta in volta una delle mie illustrazioni e su questa costruiranno il racconto.
Credo possa rivelarsi uno scambio interessante, anche perchè gli autori invitati a partecipare sono tra i migliori in circolazione!